Arte ingegneristica: il caso dei Piloni sullo Stretto
Quando parliamo delle testimonianze che le grandi civiltà del passato ci hanno lasciato, pensiamo a sculture, quadri, monumenti. Alcuni tra questi ultimi sono celebrativi, funerari o di rappresentanza. Altri, invece, sono vere e proprie opere di ingegneria delle infrastrutture, spesso simboliche e rappresentative di una civiltà. Un esempio? La civiltà romana. È vero, se dici Roma dici Colosseo, archi di trionfo, ma non solo; dici anche ponti, strade ed acquedotti.
Soprattutto questi ultimi sono diventati parte integrante del paesaggio: cosa sarebbe Vers-Pont-du- Gard senza il pont du Gard appunto o Segovia senza il suo acquedotto o il Parco regionale dell'Appia Antica senza i resti dei suoi acquedotti?
A nessuno verrebbe in mente di abbatterli in nome di un risparmio economico in tempo di crisi, un tempo in cui bisogna stilare una lista delle priorità nell’uso del denaro pubblico. Questo non solo per il loro valore storico-artistico, per i vincoli storici che li tutelano, ma anche per una cultura e coscienza comunitaria che crea un senso di appartenenza, ancora più stretto, tra persone e luoghi in cui tali capolavori di ingegneria infrastrutturale campeggiano.
Eppure un discorso simile non può essere sostenuto per le opere di ingegneria contemporanea. Tali opere spesso non sono amate, né in fase di progettazione perché danno vita alle rivolte degli ambientalisti né quando cadono in disuso perché simbolo di uno scempio paesaggistico costato milioni dei contribuenti e che dal loro punto di vista non meriterebbe un ulteriore spreco di denaro per la loro manutenzione. Perché questo? Perché certe opere di ingegneria infrastrutturale non meritano l’apprezzamento della Comunità e una loro manutenzione e valorizzazione? È vero, in alcuni casi certe realizzazioni non rendono onore a chi le ha progettate e realizzate, non rendono giustizia al denaro pubblico speso ed una loro demolizione, benché dispendiosa, darebbe una riabilitazione al territorio da esse compromesso. Per fortuna, però, non è sempre così e a volte sembra esserci un’avversione tout court, come se alcune opere, solo perché non avvolte da quel manto storico che darebbe loro inviolabilità, non meritassero tutela e rispetto, anche culturale.
Quello che mi piacerebbe fare in questo spazio è prendere in esame alcune di queste costruzioni, raccontarle e comunicarle, perché senza divulgazione della loro storia e di quello che rappresentano non può esserci speranza di rispetto.
Fatte queste premesse, è stato facile scegliere con cosa iniziare e cioè con i due tralicci dell’elettrodotto sullo Stretto di Messina. Diversi i loro appellativi: dal più scontato ottava meraviglia del mondo, al suggestivo ed accogliente i guardiani dello Stretto, al familiare u piluni usato dagli abitanti del luogo. Basterebbe soffermarsi su questi appellativi per conoscere qualcosa su di essi.
L’ottava meraviglia del mondo Quanti chilometri di elettrodotti caratterizzano il nostro paesaggio? Eppure l’unicità dell’elettrodotto sullo Stretto è incomparabile per l’anno in cui venne realizzato, per le difficoltà incontrate, per il valore simbolico che scorreva lungo i suoi cavi. Ma andiamo con ordine. I due piloni cominciarono ad essere costruiti agli inizi degli anni Cinquanta, uno a Torre Faro, una frazione di Messina, e l’altro in località Santa Trada, a Villa San Giovanni. L’ingegnere autore del progetto, Arturo Danusso, come modello di riferimento prese il primo elettrodotto che attraversava il fiume Elba in Germania. Nel 1956 i lavori si conclusero, lavori che costarono, purtroppo, la morte di due operai, ma anche 200.000 giornate lavorative e 2 miliardi di lire. Il risultato fu maestoso: due piloni di 232 mt di altezza ciascuno, 1114 scalini, 3646 mt di lunghezza dei cavi, ottenendo per questo il record dell’elettrodotto più lungo del mondo, record mantenuto fino alla realizzazione del secondo attraversamento di elettrodotto del fiume Elba. Una realizzazione di eccellenza per l’ingegneria italiana, a cui venne assegnato nel 1957 il premio ANIAI, premio dell’associazione nazionale ingegneri ed architetti per le più importanti realizzazioni italiane nel campo dell’ingegneria e architettura.
Il suo pregio, a mio avviso, andava oltre l’aspetto ingegneristico. L’elettrodotto sullo Stretto, infatti, rappresentava un periodo di ripresa di un’Italia che si avviava al boom economico, che aveva bisogno di più energia e che non lasciava indietro la Sicilia, che con questi circa 4 chilometri di cavo veniva “unita al continente”. Un valore simbolico quest’ultimo che nei decenni successivi, purtroppo, si è smarrito.
Intorno agli anni Novanta l’elettrodotto andò in disuso e venne dismesso perché i suoi cavi in acciaio non riuscivano a trasportare energia sufficiente a soddisfare la domanda ed iniziò in sostituzione la costruzione di un elettrodotto sottomarino.
I guardiani Con il disuso dell’elettrodotto i tralicci iniziarono la fase dei guardiani. Non vennero demoliti ma rimasero lì a vegliare sui passanti, a guardia forse proprio di Scilla e Cariddi, i mostri leggendari che ancora oggi recano un terrore suggestivo tra i viaggiatori che attraversano la sponda calabrese e siciliana. I piloni sono lì, però, a far sì che l’attraversamento si svolga in tranquillità.
U piluni Sono ormai settanta anni che svettano lì su un paesaggio unico. Ci sono generazioni di abitanti che hanno visto lo Stretto con e senza piloni ed altri, invece, che senza di essi lo Stretto stenterebbero a riconoscerlo. Ad ogni modo, per la maggior parte i due tralicci sono parte integrante della loro terra, delle loro vite e per coloro che per volontà o necessità sono costretti a lasciare i propri territori, essere di nuovo a casa significa avvistare u piluni. Una loro demolizione sarebbe impensabile, tanto che, quando Enel nel 2009 cedette ad un privato la proprietà del traliccio in Calabria il sindaco di Villa San Giovanni dovette accertarsi che il privato in questione non avesse intenzione di demolirlo, proprio per l’affezione della popolazione al pilone di Santa Trada.
I sentimenti non bastano Non basta essere legati ad un’opera, bisogna averne cura, come per tutte le cose, ma purtroppo non c’è sempre rispetto nel nostro Paese per ciò che è stato fatto e per quello che rappresenta. Si lasciano crollare ponti di utilizzo quotidiano, figuriamoci due tralicci di un elettrodotto in disuso! La conferma, infatti, c’è stata grazie al video di un climber polacco che nel 2020 ha scalato a mani nude il traliccio siciliano documentandone involontariamente lo stato di incuria in cui si trovava e trova tuttora. Diversi sono stati i tentativi di valorizzarli (c’è stata persino la proposta nell’estate del 2022 di sfruttare i due piloni per la realizzazione di due colossali Bronzi di Riace!), ma la mancanza di risorse e la tutela di voli migratori di alcuni uccelli ha lasciato ogni buona intenzione o progetto di valorizzazione al palo, facendo sì che il loro degrado li stia trasformando davvero in Scilla e Cariddi, diventando un pericolo per i passanti. Tutto va tutelato, paesaggio, fauna, bilanci comunali e regionali, ma la costruzione di una volontà comunitaria attraverso la divulgazione della cultura e della storia di un territorio e delle opere che ne fanno parte, potrebbe creare una rete di interessi in grado di unire i vari settori da proteggere spesso visti in contrasto l’uno con l’altro.